Tra nuove tecnologie e stagnazione della crescita il mercato del lavoro italiano vive una stagione drammatica. La formazione continua come scelta strategiche per uscire fuori dal guado e garantire competitività ai lavoratori italiani.
La debolezza nel contesto produttivo italiano nella domanda e offerta di competenze ha generato un adattamento reciproco tra istituzioni formative e mondo del lavoro con una caratterizzazione al ribasso (low equilibrium) che fa emergere l’esigenza di policies per il reskilling e l’upskilling dei giovani e degli adulti in una prospettiva di long term employability. Il quadro composito della “fragilità del capitale umano del Paese” fissato dalla recente pubblicazione del XXI Rapporto su “Mercato del lavoro e contrattazione collettiva” del CNEL mette in fila le criticità del sistema-Italia. Un lungo elenco costituito da bassi livelli di istruzione terziaria rispetto alla media OCSE, scarse prospettive di occupazione per i laureati tra i 25 ed i 35 anni, inferiori a quelle dei diplomati dei corsi di studio professionali di istruzione secondaria superiore, persistenza di fenomeni come i Neet (che secondo Eurostat 2018 raggiungono in Italia il 28,9%, quasi il doppio rispetto alla media europea) oltre, come accennato, ad un crescente numero di low skilled (circa 11 milioni per il 52% uomini, concentrati nelle fasce d’età più avanzata).
Il mercato del lavoro in Italia, in parole povere, sta vivendo una stagione drammatica. Pur superando i livelli pre-crisi, il tasso di occupazione del Paese, al livello più alto della sua storia recente (59,4%), rimane tra i più bassi dell’Ue. Un panorama caratterizzato da più ombre che luci che può essere sintetizzato con le parole del presidente del CNEL, Tiziano Treu:
“La nostra forza lavoro non è più competitiva rispetto alle stesse categorie di altri Paesi. Questa situazione del mercato del lavoro non è contingente, ha radici strutturali, perché riflette la debolezza di un’economia che è stagnante da anni. Un’Italia ferma da oltre vent’anni su un sentiero di crescita che oscilla intorno allo 0.2% annuo e su un tasso di partecipazione al lavoro sempre inferiore a quella dei principali Paesi sviluppati non può competere nel mondo di oggi e non può dare prospettive alle generazioni future”.
Tra i dati più allarmanti: nessuna regione italiana, è riuscita, a dieci anni dall’inizio della crisi, a tornare sul livello di benessere registrato prima del 2008; l’occupazione nel 2019 crescerà di un solo decimo di punto in più rispetto al tendenziale; il tasso di crescita nel 2020 sarà più basso che nel 2019.
“Per modificare tale condizione non bastano rimedi isolati e parziali, né solo le modifiche legislative, comprese quelle più recenti,” avverte il CNEL. Tra le azioni prioritarie da mettere in campo investimenti sul trinomio dati, intelligenza artificiale, infrastrutture, secondo un piano coordinato. E una maggiore attenzione al settore della formazione secondo i paradigmi fissati dal piano europeo Upskilling pathways in Italy.
Alla base di questo intervento, innanzitutto, la consapevolezza di una rivoluzione digitale che implica una trasformazione dei contenuti delle skill molto più veloce che in passato e richiederà un ricambio di conoscenze con frequenza accelerata; per molte delle competenze digitali più rilevanti si stima che ogni 5-6 anni occorrerà rinnovarle completamente.
“Il Cnel ritiene che per affrontare queste sfide serva un piano intensivo di formazione continua, che elevi la platea dei lavoratori coinvolti verso i livelli europei, utilizzando pienamente i fondi comunitari e le risorse dei Fondi interprofessionali”.
Il rapporto pone grande attenzione al rapporto tra automazione/digitalizzazione e crescita dell’occupazione in alcuni settori e professioni. L’adozione di tecnologie task basied già inciderebbe negativamente sul numero delle giornate medie lavorate dagli individui in azienda e, di conseguenza, sulle prospettive di stabilità occupazionale e sull’accumulazione di competenze on the job.
“Le nuove tecnologie, peraltro, hanno effetto non solo su quantità e qualità dell’occupazione, ma causano un profondo mutamento della gestione delle risorse umane e dei fabbisogni professionali, agendo sugli stessi modelli di competizione. Tali aspetti possono indurre incrementi di efficienza produttiva e della capacità di incontro fra domanda e offerta di competenze che, sul medio-lungo periodo, possono in parte compensare l’impatto negativo in termini occupazionali”.
Rimane difficile comunque prevedere in che modo l’introduzione di nuove macchine impatterà sull’evoluzione del mercato del lavoro italiano, esercizio reso ancora più complicato “dal ruolo della demografia manageriale e della governance aziendale, che orientano le scelte di investimento in innovazione e le politiche del personale in modo da accelerare o attenuare l’introduzione delle nuove tecnologie”.
In conclusione il rapporto spinge su una riflessione strategica sulla formazione professionale in un’ottica comparata e incentrata su un maggiore sviluppo: di sistemi di orientamento al lavoro in grado di sostenere le opportunità di occupabilità delle categorie giovanili (bilancio di competenza, assessment, coaching, colloquio individuale e personalizzato) in un’ottica di life long guidance; percorsi formativi per l’adulto in accompagnamento alle transizioni professionali, data la discontinuità di esperienze professionali intervallate con esperienze formative; percorsi formativi nei contesti di lavoro, ai fini della crescita del capitale umano presente in questi ultimi.