(da Bollettino Avvisatore Marittimo speciale Dicembre)
Cinquecento persone al giorno tra studenti, docenti e personale dei servizi. Oltre 20 mila marittimi ospitati ogni anno in 165 stanze di un palazzo costato oltre 3 milioni di euro, non solo per ristrutturarlo ma per equipaggiarlo con elevata tecnologia, capace sia di far funzionare la struttura che per simulare la vita a bordo di una nave mercantile. L’Italian Maritime Academy Technologies (IMAT) non ha più bisogno di presentazioni ormai. Operativo dal 2005, ristrutturando poi un vecchio albergo acquisito nel 2013, oggi è un pezzo del delicato territorio di Pinetamare, frazione Castelvolturno, coinvolgendo oltre 100 ditte fornitrici, la maggior parte locali. Oggi è un centro di eccellenza per la formazione del personale marittimo, dove però non si viene solo per ottenere i certificati obbligatori internazionali dello Standards of Training, Certification and Watchkeeping for Seafarers (STCW), la convenzione internazionale del 1978 dell’International Marittime Organization (IMO) che regolamenta la formazione continua degli equipaggi. «La cultura della conoscenza generalmente riguarda un bisogno personale, ma in un mondo che cambia così velocemente, e in un contesto marittimo dove tradizionalmente l’esperienza conta più della conoscenza, oggi dello studio dobbiamo avere una concezione diversa, invertendo il rapporto», spiega Fabrizio Monticelli, amministratore unico dell’IMAT. «Si tratta di concepire – continua – il portafoglio delle competenze come individuale e non semplicemente limitato alle esigenze della formazione. Possiamo dare un grosso aiuto a quel grande patrimonio di conoscenze dei direttori e degli ufficiali, che proprio sulla base dell’esperienza hanno gestito le nostre flotte, rendendoli più consapevoli del valore della didattica, del confronto continuo con le innovazioni. È un plus valore, quello di non ritrovarsi fuori dal mercato del lavoro ed è questo il nostro scopo, vogliamo tirare fuori questa consapevolezza dai marittimi»
L’istituto è cresciuto molto, cambiando in cui le compagnie marittime concepiscono la formazione continua dei loro equipaggi. A cosa avete lavorato negli ultimi tempi?
«Gli ultimi due anni sono stati dedicati al rafforzamento della visione di IMAT sia dal punto di vista culturale che professionalizzante. Si è lavorato fortemente sul cambiamento del paradigma delle competenze del settore, passando dalla formazione per il marittimo a quella per le compagnie: gli armatori hanno capito che non rappresenta un costo ma un investimento. Lo shipping, oltre ad essere capital intensive, è labour intensive, le competenze sono strategiche. In due anni è stata avviata una nuova fase, passando da contratti basati su corsi obbligatori a un competence management system, una certificazione delle competenze in qualità delle flotte, creando manuali delle procedure. Una visione illuminata, primo passo verso un’alleanza strategica tra gli stakeholders del settore, lì dove si prospetta un portafoglio delle competenze non semplicemente basato sulla quantità, cioè le certificazioni STCW, ma anche sulla qualità, cioè i profili delle navi, il function profile. Tutto questo va ad impattare sui quattro soggetti strategici di gestione di queste competenze: il marittimo, le compagnie, i centri di formazione e le autorità di controllo».
Come si articolano questi quattro soggetti verso lo shipping?
«Il marittimo avrà un portafoglio tracciabile delle competenze; le compagnie, avendo un manuale standard delle procedure, monitorano la qualità della flotta; i centri di formazione operano in qualità di didattica innovativa, aggiornando continuamente la didattica alle normative internazionali e agli sviluppi tecnologici. Infine, le istituzioni pubbliche, avendo tutti questi dati dal basso, possono rendere cogenti ed efficaci le normative IMO. Le nuove tecnologie e le risorse umane caratterizzano l’evoluzione della didattica marittima. Sull’uso delle tecnologie abbiamo fatto una scelta di campo alleandoci al gruppo Transas-Wartsila, creando un simulation complex basato su 240 working station. Sono investimenti onerosi. Dall’altro lato ci sono le risorse umane che richiedono un impegno simile. Oggi gli istruttori del nostro centro sono circa 50, che soddisfano tutti i fabbisogni del mercato».
È un lavoro complesso, perché basato su esigenze imprenditoriali, didattiche e regolatrici.
«Abbiamo creato un dipartimento di ricerca costituito da sei persone, tre ingegneri e tre esperti in scienza della navigazione, con due scopi. Il primo è quello di supportare gli istruttori nel continuo adeguamento dei contenuti dei corsi STCW, rafforzando la formazione obbligatoria; il secondo è realizzare corsi basati sulle esigenze specifiche delle compagnie marittime, ovvero safety, security, health, environment e digitalitation. Le tecnologie e le normative cambiano velocemente, c’è bisogno di una profonda capacità di adeguare le competenze al long life learning che non si limita più staticamente a ciò che è obbligatorio ma è fluido e settorializzato in cruise, offshore, cargo, merci pericolose, etc. Oltre al dipartimento di ricerca, abbiamo creato un IT departement che definisce didattiche basate su e-learning e blending, ovvero un mix di lezione tradizionale, laboratorio e telematica. Applichiamo questi metodi anche alle nuove normative in vigore, come per esempio il Polar code, in cui siamo gli unici soggetti autorizzati dal Comando generale delle Capitanerie. Poi ci sono le nuove disposizioni sulle navi a propulsione a LNG, in cui sono coinvolte tutte le persone a bordo. Al di là di esserci accreditati presso il ministero dei Trasporti, stiamo sviluppando una serie di strumenti dedicati per rendere sempre più forte la familiarizzazione con questi nuovi dispositivi, coinvolgendo le risorse umane. Oltre agli ingenti investimenti in nuove tecnologie, stiamo formando gli istruttori ufficiali facendogli svolgere periodi di lavoro sulle navi gasiere del Gruppo. Soltanto così gli ufficiali possono essere buoni istruttori».
Quindi, un buon istruttore è sia un veterano che un allievo.
«In passato la formazione del marittimo era concepita come una questione che riguarda soltanto lui, a sue spese. Successivamente le compagnie marittime hanno iniziato a impegnarsi anche loro in questo processo. Oggi l’IMAT si trova in una terza fase, quella in cui si sta maturando il bisogno di conoscere le competenze della flotta, di fare dei percorsi tracciabili che creano valore per tutto il Paese, non solo all’economia del mare, perché definiscono nuove responsabilità, un nuovo modo di concepire i mestieri del mare, di rispettare le professioni. Tutto ciò deve iniziare dai nostri istruttori che non devono mai perdere la curiosità dell’apprendimento e devono aggiornarsi costantemente».
Sta parlando di un nuovo approccio culturale.
«Il grande tema è la consapevolezza dei marittimi, il che costituisce una quarta fase nell’evoluzione didattica. Oggi si stanno cominciando a richiedere ufficiali laureati. Non più solo persone tecnicamente preparate ma flessibili, curiose, disposte a crescere al di là della certificazione. Se riusciamo a spingere su questa leva abbiamo la chiave per il mantenimento e la crescita dell’occupazione e della formazione dei marittimi italiani. Questa consapevolezza che la continuità professionale, che non è una cosa semplice. C’è la managerializzazione, la comunicazione, si moltiplicano le specializzazioni soft skill per ufficiali e dirigenti, tempo che si moltiplica e, se quello a disposizione è sempre lo stesso, è naturale che aumenti l’e-learning»
La didattica marittima si fa sempre più stratificata.
«Prima tecnologia e formazione cambiavano con estrema lentezza, oggi non è più così e dobbiamo fare di necessità virtù. La flessibilità dell’apprendimento va stimolata continuamente, è l’unica chiave per mantenersi attivi nel mercato del lavoro. È anche un lavoro di scardinamento. Puoi fare la didattica migliore del mondo ma non si è vincenti se non lo fai per creare un portfolio di competenze da vendere sul mercato. Marittimi, compagnie, centri di formazione e autorità di regolamentazione non sono enti conflittuali ma concorrenti, metterli insieme è la vera chiave per una crescita consapevole».
E poi c’è il problematico territorio di Castelvolturno, da anni un eccellente shooting cinematografico.
«IMAT fa crescere Castelvolturno non semplicemente per spirito filantropico. Quando è arrivata a Pinetamare i negozi aperti erano pochissimi, e soltanto ad agosto. Oggi, dopo sette anni, non chiudono più e c’è un benessere diffuso. Ogni giorno qui 500 persone prendono il caffè e fanno la spesa. Il nostro rapporto col territorio è basato sulla qualificazione di quello che già fa. Se moltiplichiamo il tutto per oltre 20 mila persone che ogni anno passano di qui, il peso economico di IMAT diventa rilevante. Dopo il 2013 sono stati aperti tre punti vendita di caseifici, bar, ristoranti. Ma non si tratta solo di cibo, lavoriamo con le scuole, con gli istituti alberghieri e gli istituti tecnici Trasporti e Logistica progettando PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento). Stiamo lavorando con associazioni ambientalistiche per implementare nei nostri corsi ore di educazione ambientale, ci stiamo certificando ISO 14001 e stiamo avviando politiche plastic free. Quanto più diventi abitante del tuo territorio, tanto più ne comprendi il valore economico e sociale, difendendolo dalle polemiche, difendendo IMAT con i fatti, e quanto più lo animiamo questo territorio, tanto più evitiamo la sua marginalizzazione. Se abbiamo bisogno di hotellerie e servizi per il tempo libero è normale che questo serbatoio venga dal territorio ed è normale che dovrà essere qualificato, per questo entriamo nelle scuole. Ma siamo anche gli sponsor principali del Festival del Cinema di Castelvolturno, che in questo momento rappresenta una peculiarità delle rassegne cinematografiche perché da qui vengono numerose produzioni degli ultimi anni, e anche qui supportiamo la didattica, in questo caso del cinema. Non è il nostro core business ma vogliamo con forza testimoniare il fatto che lì dove si mette istruzione, cultura, educazione, valori sostenibili, oltre ovviamente a guadagni gratificanti, si riesce a costruire vero sviluppo».
Paolo Bosso